Torniamo dopo un anno a Shiprock, New Mexico, ospiti dell’amico Mark Amo (direttore del teatro). Shiprock è nel territorio della Nazione Navajo, e infatti gli studenti della scuola locale sono praticamente tutti Navajo. La scuola ha un coro, e l’anno scorso Bonnie Lee, la direttrice ci aveva invitato a partecipare a una prova. Ne è nata una strana simpatia reciproca (guardinga da parte loro, forse un po’ distratta da parte nostra). Quest’anno ci hanno scritto: il coro ha deciso di preparare due nostri pezzi, Angiolina e Mariuleina, che nell’album sono cantati dal Coro delle mondine di Novi insieme a noi. Possono venire a cantarle con noi? Ma certo, rispondo. Un coro di 46 indiani Navajo che cantano in dialetto emiliano? Non è una cosa che mi succeda tutti i giorni.
Con Bonnie ci ho messo il carico da undici: voglio assolutamente fare con loro Bella Ciao versione “world”, come abbiamo fatto già con artisti di tutto il mondo. Non avete un pezzo Navajo da cantare insieme a noi su Bella Ciao? Bonnie esita, non se la sente. Insisto: noi siamo ospiti qui, è giusto che il suono della lingua Dinè (questo è il termine che loro usano per se stessi, il nome di Navajos glie lo hanno dato i bianchi) si senta in questo concerto. Alcuni dei ragazzi annuiscono: li ho convinti, e a questo punto è fatta. Io preferirei un brano tradizionale dei nativi, ma la cosa più vicina a questa idea che sanno cantare è un inno religioso, “Amazing Grace”, tradotto in Diné.
E così lo facciamo: i ragazzi si presentano con magliette rosse, bianche e verdi in onore dell’Italia, e accanto all’italiano e al dialetto, sul palco, risuonano le aspirate e le gutturali della lingua Diné. Il pubblico – quasi tutti nativi – è molto contento. Roberta chiama l’applauso: “The Chieftains Choir!”. Applausi e grida. Io le faccio eco: “The Navajo Nation!” Ancora applausi. Ringraziamo in Diné: “Akh’ie hé!”. I ragazzi mi salutano con abbracci e pacche da orso.
Il giorno dopo, a pranzo, ne riparliamo con Keith, che lavora con Mark al teatro (ma Mark è bianco, Keith è nativo). Si è capito che la musica, per i nativi americani, non è un marker culturale importante come per noi europei: per loro ha prevalentemente una funzione cerimoniale, l’idea di eseguirla in un teatro davanti agli estranei gli è estranea come lo sarebbe per noi rappresentare la messa e teatro facendo pagare il biglietto.
“Mi sembra che per voi il marker identitario sia piuttosto la lingua, Keith. Peccato che i ragazzi la parlino poco.”
“Molti la parlano in casa, ma si vergognano di parlarla di fronte ai loro amici.”
“E’ una cosa che capisco, ma la considero sbagliata. Da noi i dialetti sono quasi spariti per la stessa ragione. I miei nonni si rifiutavano di parlarci in dialetto, loro volevano che il dialetto sparisse, e che noi fossimo semplicemente italiani, cancellando le identità locali. Oggi mi dispiace di non parlarlo meglio, di non avere acquisito più storie. Da adulto ho ricominciato a usare il dialetto come lingua dell’intimità: se ti parlo in dialetto vuol dire che sei mio amico.”
Keith è chiaramente intrigato. Comincia a raccontarmi della musica dei nativi, di come alcuni giovani stiano cautamente sperimentando piccole innovazioni sul modo di suonare il tamburo (“In alcune cerimonie usano non un tamburo, ma due o addirittura tre di dimensioni e con suoni diversi, e percuotono i bordi della pelle o fanno scivolare la mano per ottenere effetti diversi.”). Io gli rispondo che l’innovazione ci deve essere, ma ci deve essere anche un grande rispetto per la musica, e che io, per capire se sono sulla strada giusta, mi confronto con le mondine, che sono gli anziani della nostra tribù. Se loro mi dicono che va bene, io la mia musica la difendo anche dalle truppe d’assalto dell’inferno, e nessuno può dirmi stronzate tipo “la vera musica tradizionale non usa suoni elettronici”.
Keith si anima ancora di più. “Anche noi chiediamo consiglio agli anziani quando facciamo cose nuove. Se loro approvano, ti senti molto forte: se la tua integrità verrà messa in discussione, loro usciranno allo scoperto e diranno: noi approviamo, gli abbiamo detto noi di fare così. E quando hai questa forza a sostenerti, come puoi sbagliare?”
Mentre parla, ha cominciato a scivolare nel Diné: dice una frase in Diné e la traduce in inglese per me, poi un’altra in Diné, poi ancora in inglese. Sono così assorbito da quello che dice che ritardo a rendermi conto delle implicazioni di rapporto. Non voglio metterlo in imbarazzo, per cui decido di buttargliela lì a mò di battuta mentre vado in bagno:
“Mi stai parlando in Diné, quindi vuol dire che sei mio amico, no?”
Quando torno, Mark sta pagando il conto. E’ ora di ripartire. Keith mi stringe la mano e mi dice una lunga frase in Diné. Non traduce. Stavolta capisco al volo l’offerta che mi fa, e voglio ricambiarla. Un po’ emozionato, riesco a trovare qualche frase in dialetto. “A gh’è chès c’ag tornàm a vèder, Keith. Stè bèin, Dio a’t bendéssa!”
Poche volte come oggi ho capito perché la world music mi dà così tanto. Aiuta a tracciare sentieri che consentono alle persone di incontrarsi e capirsi, aiutate – non ostacolate, alla faccia di Sam Huntington – dalle rispettive culture. Sarà la luce del deserto in autunno, sarà il suono della lingua Diné, saranno i due giorni che ho passato in un luogo in cui i nativi americani sono la maggioranza, ma mi sento come se Keith e io fossimo due esploratori che hanno appena trovato un sentiero. E sembra promettente.